«Paris strikes again». La Francia si conferma “allergica” a pluralismo e diritti linguistici

[Marco Stolfo]

La solita storia, la solita canzone

Una legge approvata in parlamento, impugnata davanti al tribunale costituzionale ancor prima di entrare in vigore e da questo dichiarata parzialmente incostituzionale, che è stata pubblicata senza le parti “incriminate” e pertanto pare destinata ad avere un impatto assai limitato, a meno che dalle mobilitazioni che hanno avuto luogo proprio in risposta a questa sequenza di fatti, giudizi e pregiudizi non parta una nuova iniziativa legislativa o venga addirittura avviata una riforma costituzionale.

Quanto è successo negli ultimi mesi in Francia, a seguito dell’approvazione definitiva, lo scorso 8 aprile, da parte dell’Assemblée Nationale, della Legge riguardante «la protezione patrimoniale delle lingue regionali e la loro promozione» (la cosiddetta “Loi Molac”, dal nome del suo primo firmatario, l’ecologista bretone Paul Molac), ha confermato nuovamente e con particolare forza un antico ed inveterato carattere dello Stato francese: la sua rilevante “allergia” nei confronti del pluralismo culturale e dei diritti linguistici dei cittadini.

Riprendendo il titolo di un celebre brano dei Led Zeppelin si può osservare, con un certo sgomento, che a Parigi «the song remain the same». Siamo nel 2021, ma la “canzone” proposta è sostanzialmente la stessa “cantata” dell’abate Grégoire nel 1794, quando il principale teorico della politica linguistica della Rivoluzione illustrava la sua celebre Relazione sulla necessità e sui mezzi per annientare i patois e per universalizzare la lingua francese.

Citando Billie Holiday si potrebbe anche dire che «it’s the same old story». È una storia che si può far partire addirittura dall’agosto del 1539, da quell’editto di Villers-Cotterêts che impose il francese come unica lingua delle istituzioni in opposizione non solo al latino ma anche alle altre lingue usate all’interno dell’allora Regno di Francia. Un percorso che abbraccia, tra gli altri, l’editto promulgato dal re Luigi XIV il 2 aprile 1700 per vietare ufficialmente l’uso del catalano da parte di giudici, avvocati e funzionari nella regione del Rossiglione, le successive teorizzazioni di Grégoire e Barére e le pratiche attuate tra Ottocento e Novecento per punire, stigmatizzandoli e ridicolizzandoli, coloro che a scuola, anche in contesti comunicativi informali, si permettevano di usare le loro lingue “altre”, violando quel tassativo divieto di «parlare patois» al quale faceva riferimento, ma in occitano, la cantante Josiana nel 1978.

Parafrasando il titolo di un brano del repertorio degli Smiths si potrebbe aggiungere che «Paris strikes again». Siamo nel secolo XXI, ma prevale ancora il culto ottocentesco della nazione «una d’arme, di lingua, d’altare», come scriveva Alessandro Manzoni nella celebre poesia Marzo 1821: un culto che, seppur declinato in senso laico – almeno in apparenza, in particolare per quanto attiene all’elemento religioso – ed espresso in termini generali con richiami a libertà, volontà, uguaglianza e universalismo, continua a confondere parità di diritti con assimilazione e intolleranza e quindi a produrre discriminazioni e diseguaglianze sostanziali, teorizzando, realizzando e perpetuando quella che viene definita «oppressione linguistica», tanto mediante decreti e circolari ministeriali quanto con dichiarazioni pubbliche come quella del ministro Anatole de Monzie, che il 29 luglio 1925, inaugurando la Casa di Bretagna all’Esposizione delle Arti decorative di Parigi, affermò senza mezzi termini che per l’unità della Francia era necessario che la lingua bretone sparisse.

Unità nell’omogeneità (e nell’assimilazione). L’Europa è lontana

Non si tratta di una prerogativa della sola Francia, tuttavia quello francese, nelle sue diverse declinazioni, rappresenta ormai da più di due secoli, in Europa e nel resto del mondo, il modello per antonomasia dello stato nazionale burocratico e accentrato. In quanto tale, esso esprime con continuità, spesso in maniera esplicita e quasi spudorata, il proprio approccio ostile nei confronti del pluralismo linguistico, che invece di essere riconosciuto quale patrimonio culturale immateriale, come ambito di esercizio di diritti fondamentali e in quanto risorsa e opportunità dal punto di vista civile, sociale ed economico è considerato una pericolosa minaccia per l’unità dello stato. Si potrebbe osservare, sotto questo profilo, la consequenzialità – se non l’automaticità – del passaggio dallo stato “uno e indivisibile” allo stato “uno e incorreggibile”.

È emblematico in tal senso il contenuto del primo comma dell’articolo 2 della vigente Costituzione della République, il quale stabilisce che «la lingua della Repubblica è il francese». Proprio questa previsione costituisce un ostacolo formale e sostanziale per qualsiasi effettiva forma di riconoscimento e di rispetto della diversità linguistica, nelle sue diverse dimensioni, poco sopra ricordate.

Ciò era evidente già nel 1999, quando il Conseil Constitutionnel, con la propria decisione n° 99-41 DC del 15 giugno, espresse una serie di osservazioni di incostituzionalità sulla possibile ratifica da parte di Parigi della Carta europea delle lingue regionali o minoritarie, convenzione adottata in seno al Consiglio d’Europa il 29 giugno 1992 e aperta alla firma e alla ratifica degli stati membri a partire dal successivo 9 novembre. Le obiezioni in tal senso presentate dal tribunale costituzionale, dopo la firma della Carta da parte dell’allora ministro per gli affari europei Serge Moscovici, membro dell’esecutivo del primo ministro Lionel Jospin, il 7 maggio 1999 a Budapest, si fondano proprio sull’esclusività della lingua francese, sancita dal primo comma dell’articolo 2 della Costituzione, sulla conseguente inammissibilità sia del riconoscimento del «diritto» di praticare la propria «lingua regionale o minoritaria nella vita privata e in quella pubblica», al quale fa riferimento il Preambolo della Carta, sia delle politiche di riconoscimento e di promozione dell’uso pubblico delle lingue “altre” nei rispettivi ambiti territoriali, da essa previste, considerate altresì contrarie ai principi costituzionali di unità e indivisibilità della Repubblica, di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e di unità e unicità del popolo francese.

Le osservazioni formulate dal Conseil Consititutionnel erano state già anticipate da Parigi al momento della firma della Carta europea delle lingue regionali o minoritarie, come si può leggere nella dichiarazione presentata proprio in quella occasione, con interpretazioni della Carta stessa che potremmo definire “minimaliste”, collegate all’intangibilità dello status di unica lingua ufficiale del francese e all’inammissibilità del riconoscimento di diritti “speciali” a gruppi di locutori di lingue “altre” in ambiti territoriali specifici. La questione fu rimandata, in quell’occasione, alla successiva definizione e approvazione dello strumento di ratifica, che a tutt’oggi, proprio per quelle ragioni, non è ancora disponibile, nonostante le dichiarazioni orientate in tal senso rilasciate dagli ultimi due presidenti della Repubblica, François Hollande e Emmanuel Macron, rispettivamente nel 2014 e nel 2017.

C’è un evidente problema di compatibilità tra l’ordinamento francese e gli standard europei e internazionali di promozione della diversità linguistica e culturale, di garanzia e pratica dei diritti linguistici e di tutela delle minoranze. Una conferma in tal senso giunge dalle ancor maggiori difficoltà incontrate dalla Francia nell’aderire ad un’altra convenzione del Consiglio d’Europa, la Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali, adottata il 10 novembre 1994. Basti pensare al fatto che sono solo quattro gli stati membri che non l’hanno firmata né tanto meno ratificata: si tratta dei principati di Andorra e di Monaco, per i quali la mancata adesione pare comprensibile alla luce delle loro particolari e limitatissime dimensioni territoriali e demografiche, della Turchia e, appunto, della Francia. In questo caso, per Parigi, accanto ai fattori politici e giuridici già ricordati figura anche la conseguente inammissibilità della stessa nozione di «minoranza».

A ben vedere qualche problema di compatibilità tra Francia ed Europa in questo campo è riscontrabile anche in relazione all’Unione europea e in particolare alla sua Carta dei diritti fondamentali, che dopo essere stata proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 ha acquisito valore giuridico vincolante con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona il 1° dicembre 2009. Basti pensare al fatto che il suo articolo 21 ribadisce il principio di non discriminazione anche in base alla lingua e all’appartenenza ad una minoranza nazionale e il suo articolo 22 sancisce l’impegno dell’Unione a rispettare «la diversità culturale, religiosa e linguistica». A questo punto, purtroppo, con riferimento alla Francia, il motto europeo «unità nella diversità» sembrerebbe essere declinato con riferimento alla «diversità» (indipendentemente dalla coerenza…) degli ordinamenti statali.

La “Loi Molac”, una legge necessaria

Se si guarda lo stato francese, utilizzando la lente del pluralismo linguistico, del suo riconoscimento e della garanzia dei diritti ad esso collegati, non si riscontra soltanto la rilevante persistenza di un’ostilità ideologica, politica, giuridica nei loro confronti, ma anche una serie di iniziative di vario genere volte ad affrontarla e superarla. Si tratta di mobilitazioni promosse da associazioni e movimenti e partiti politici espressione delle comunità di lingua minorizzata che, seppure con grosse difficoltà, hanno conseguito anche qualche risultato, tra norme, atti, azioni e progetti.

Si colloca in questa cornice la ormai “antica” – e non solo perché risale a settant’anni fa – Legge 51-46 dell’11 gennaio 1951, nota con il nome del suo relatore, il socialista Marcel Deixonne: il primo provvedimento dedicato all’insegnamento – ovviamente facoltativo e limitato – nelle scuole materne ed elementari di alcune delle lingue “altre” di Francia, come basco, bretone, occitano e catalano. Quella legge venne successivamente rivista, anche mediante une serie di decreti, per includere altre lingue. Nel frattempo, anche in connessione con l’avvio della seppur timida regionalizzazione del Paese, è stata successivamente introdotta qualche norma riguardante sia l’istruzione, sia l’uso pubblico di queste lingue, limitatamente a segnaletica e cartellonistica stradale, sia la loro limitata presenza nell’offerta radiotelevisiva pubblica regionale, mentre in ambito educativo c’è stato il riconoscimento ufficiale di quelle scuole associative, organizzate territorialmente in seno a diverse comunità, dalla Bretagna (Diwan) all’Occitania (Calandretas), dal Paese Basco del nord (Ikastolak/Seaska) alla Corsica (Scola Corsa), sino all’Alsazia e alla Lorena (ABCM Zweisprachigkeit), costituite, appunto, per iniziativa privata e caratterizzate dall’insegnamento della lingua propria accanto al francese e soprattutto dal suo utilizzo come strumento di insegnamento delle altre discipline (metodo immersivo).

Questi relativi avanzamenti si sono registrati a più riprese tra gli anni Settanta e gli anni Novanta del secolo scorso, anche per effetto delle iniziative assunte a livello europeo a favore di lingue, minoranze e diritti (dalle risoluzioni approvate dal Parlamento europeo eletto direttamente dai cittadini alle convenzioni adottate in seno al Consiglio d’Europa) e si sono consolidati – sempre in termini relativi e in condizioni precarie – nel nuovo millennio, anche se hanno continuamente trovato sulla loro strada vecchi e nuovi ostacoli, tra cui l’introduzione, nel 1992, del già ricordato primo comma dell’articolo 2 della Costituzione riguardante la lingua francese, il suo status e la sua rilevanza.

Le nuove mobilitazioni e l’influenza delle iniziative politiche e normative europee, la quale si concretizza proprio nella firma francese della Carta europea delle lingue regionali o minoritarie, hanno innescato l’avvio di nuove iniziative sia legislative che di riforma costituzionale. Il loro sviluppo è stato di fatto ostaggio di contese politiche e partitiche di carattere generale – per esempio ai tempi della coabitazione tra il presidente gollista Jacques Chirac e il primo ministro socialista Lionel Jospin – e di conflitti ideologici propriamente riferiti ai temi della nazione, della lingua, delle lingue e dei diritti linguistici. Pertanto si è concretizzata soltanto in qualche innovazione introdotta nel codice dell’istruzione e rilanciata nelle circolari ministeriali – la possibilità di prevedere forme di insegnamento facoltativo delle lingue “altre” durante l’intero percorso della scuola dell’obbligo, con le modalità definite per mezzo di convenzioni tra lo stato e le rispettive comunità territoriali (articolo 312-10), e la previsione di forme sperimentali di insegnamento immersivo anche nelle scuole pubbliche (articolo L. 314-2) – e nell’unica revisione costituzionale che ha avuto successo, quella del 2008, la quale ha comportato l’aggiunta dell’articolo 75-1: «Le lingue regionali fanno parte del patrimonio della Francia».

Si tratta di un riconoscimento limitato, come si deduce dalla riduzione delle lingue alla sola dimensione culturale/patrimoniale e dalla stessa nozione di «lingue regionali» che nell’accezione francese ne attesta la subordinazione rispetto alla «lingua nazionale», considerata l’unica vera lingua, in analogia col fatto che le «regioni» sono subordinate alla dimensione statale e nazionale. Tuttavia, considerato il particolare contesto normativo e giuridico, è assai significativo, come si può dedurre dalla reazione “isterica” con cui il nuovo articolo della Costituzione fu accolto da parte dell’Academie Française.

Il nuovo quadro costituzionale, arricchito di quel riconoscimento, ha comportato il rilancio dell’opzione della ratifica della Carta europea delle lingue regionali o minoritarie e del contestuale o per certi versi preliminare adeguamento della legislazione statale in tal senso. La proposta di legge, di cui Paul Molac è stato il primo proponente e approvata lo scorso 8 aprile, si inserisce in questo contesto e costituisce un tentativo di risposta a questi bisogni.

L’approvazione della “Loi Molac”: la giornata storica dell’8 aprile

L’approvazione conclusiva della «Legge relativa alla protezione patrimoniale delle lingue regionali e alla loro promozione» è stata salutata dalle diverse entità espressione delle comunità minorizzate dello Stato francese e dalla rappresentanza delle Regioni di Francia come un fatto storico di grande importanza.

Con 274 voti a favore, 76 contrari e 19 astensioni il provvedimento proposto, come primo firmatario, da Paul Molac, è diventato legge. L’iniziativa promossa dal deputato ecologista bretone, che nel 2018 è stato uno dei fondatori del gruppo parlamentare Libertà e Territori, insieme ad altri deputati occitani, corsi, alsaziani e bretoni, era stata approvata in prima lettura dall’Assemblée Nationale nel febbraio del 2020, anche se in una versione ridotta e ridimensionata rispetto alla proposta iniziale, a seguito delle pressioni effettuate sui deputati della maggioranza da parte del ministro all’istruzione Jean-Michel Blanquer. Nel successivo passaggio in Senato le parti emendate ed eliminate nella camera bassa venivano nuovamente inserite nel testo del provvedimento lo scorso dicembre e in questa versione venivano approvate e rimandate all’Assemblée Nationale, che non modificava quel testo e lo approvava integralmente, rendendo così non più necessario un secondo voto da parte dei senatori.

La legge è stata approvata con un’ampia maggioranza trasversale e ha ottenuto anche il consenso di gran parte dei deputati del partito di governo LRM (La République en Marche), eletti nelle regioni in cui sono presenti le lingua minorizzate, che hanno votato secondo coscienza, per effetto della pressione in tal senso esercitata da associazioni e altre entità territoriali e da molti rappresentanti delle amministrazioni regionali, mentre i voti contrari sono giunti in prevalenza dalla destra e dalla sinistra (iper)nazionaliste francesi di RN (Rassemblement National) e LFI (La France Insoumise).
Il testo approvato può essere considerato quanto di meglio potesse essere realizzato in quello che obiettivamente, per le ragioni ideologiche e quindi politiche e giuridiche già ricordate, è un contesto “poco accogliente”. Esso, infatti, è stato elaborato, tenendo conto proprio del quadro normativo di riferimento e quindi con la necessaria enfasi posta sulla dimensione “oggettiva”, patrimoniale e culturale delle lingue e senza alcun richiamo a quella “soggettiva”, riguardante i diritti linguistici. Nonostante ciò, riesce ad affrontare le principali esigenze espresse dalle diverse comunità linguistiche, in particolare in campo scolastico, con una certa attenzione per gli usi pubblici, evidentemente con molte cautele e con diverse omissioni (basti pensare al fatto che la segnaletica e la cartellonistica bilingui costituiscono soltanto delle “possibilità” e non sono un obbligo di legge), e tralasciando il settore dei media.

Come era già emerso durante il dibattito in commissione e in aula, sono tre i punti più rilevanti del testo approvato l’8 aprile. Il primo riguarda l’istruzione e la previsione relativa all’utilizzo, non più soltanto sperimentale, del metodo pedagogico dell’immersione linguistica (in bretone, in basco, in catalano, in corso, in occitano…) nelle scuole pubbliche. Il secondo si riferisce alla possibilità che le scuole associative vengano finanziate non solo dalle amministrazioni locali nel cui territorio operano, ma altresì da tutte quelle, anche se diverse, corrispondenti alle località di provenienza dei loro allievi. Il terzo si colloca nell’ambito degli usi pubblici delle lingue minorizzate, con l’ammissibilità dell’uso dei caratteri diacritici tipici delle lingue “altre” di Francia (per esempio “ñ”, utilizzato nell’onomastica in bretone e in basco, o il punto intermedio tipico di nomi catalani come “Gisel·la”): una previsione volta superare e quindi ad evitare in futuro casi come quelli della mancata registrazione del nome proprio basco Iñaki o di quello bretone Fañch, oggetto di diversi contenziosi (per esempio: https://www.thelocal.fr/20170914/french-court-bans-couple-from-using-breton-letter-in-childs-name/).

L’immediato ricorso al Conseil Constitutionnel, la decisione dei giudici costituzionali del 21 maggio e le sue conseguenze

Un gruppo di parlamentari, sostenuti dal ministro all’istruzione Jean-Michel Blanquer, ancor prima della sua promulgazione, ha sottoposto il testo approvato dalla camera dei deputati alla valutazione del Conseil Constitutionnel. L’iniziativa è stata vista con sospetto e con preoccupazione da parte di coloro che avevano proposto e sostenuto il provvedimento, dai rappresentanti delle comunità interessate direttamente dal provvedimento, da molti amministratori regionali e da una serie di personalità del mondo della politica, della società e della cultura, tra i quali figurano anche esponenti dell’Academie Française come lo scrittore Erik Orsenna e la filosofa e filologa Barbara Cassin.

Proprio Orsenna si è fatto promotore di un appello a favore della “Loi Molac”, sottoscritto da duecento firme eccellenti, tra cui quelle dei musicisti Alan Stivell e Manu Chao, e pubblicato su Le Monde il 19 maggio scorso.

Due giorni dopo, per triste ironia proprio in quel 21 maggio, che per iniziativa dell’Assemblea generale delle Nazioni unite è stata proclamato nel 2002 Giornata mondiale della diversità culturale per il dialogo e lo sviluppo, il tribunale costituzionale francese ha pubblicato la sua decisione sulla «Legge relativa alla protezione patrimoniale delle lingue regionali e alla loro promozione», di cui ha sancito la parziale incostituzionalità.

La Decisione 2021-818 DC si concentra su due dei tre punti chiave del provvedimento, che considera incompatibili con il contenuto del già ricordato articolo 2 comma 1 della Costituzione. Poiché «la lingua della Repubblica è il francese», infatti, per i giudici costituzionali non sono ammissibili né il metodo didattico immersivo né l’uso dei caratteri diacritici “non francesi”.

Nonostante le sue dichiarazioni pubbliche a favore dell’importanza della ricchezza rappresentata dalla pluralità linguistica, il presidente della Repubblica, Emmanuel Macron, ha provveduto a firmare la legge, privata delle previsioni giudicate incostituzionali, immediatamente, chiudendo così la strada ad ogni sua possibile revisione in sede parlamentare.

La decisione del tribunale costituzionale e l’entrata in vigore di una legge dimezzata sono state accolte con preoccupazione e con sgomento. Indicativo il comunicato diffuso da Paul Molac il 21 maggio, subito dopo la pubblicazione della decisione del Conseil Constitutionnel, nel quale osserva che il giudizio espresso a seguito del ricorso proposto da sessantuno deputati, «teleguidato dal ministro dell’istruzione e permesso dal presidente della Repubblica» considera incostituzionale un metodo didattico praticato con successo da cinquant’anni. Si pone pertanto nuovamente la questione della necessità di modificare l’articolo 2 della Costituzione, che si conferma, per effetto delle sue interpretazioni restrittive, di difficile compatibilità con la democrazia linguistica e il pluralismo.

In risposta alla decisione e alla promulgazione di una legge dimezzata, il 29 maggio, in molte città, dalla Bretagna al Paese Basco del nord, dall’Occitania all’Alsazia dalla Corsica al Rossiglione (Catalogna del nord), ci sono state diverse manifestazioni con decine di migliaia di persone in piazza in ciascuna località, per rivendicare il diritto alla lingua.

La preoccupazione principale riguarda il metodo immersivo: la questione, che per ora non ha ottenuto una vera e propria risposta, è se questa modalità didattica – di cui è riconosciuta l’efficacia – è da considerarsi incostituzionale solo nella scuola pubblica, oppure in termini assoluti e quindi anche nelle scuole associative, la cui stessa esistenza potrebbe a questo punto essere messa in discussione.

A questo proposito, il primo ministro Jean Castex, che ha incaricato due deputati di approfondire la questione, si è espresso a favore di un’interpretazione che limita l’impatto della decisione dei giudici costituzionali allo sviluppo della didattica immersiva nelle scuole pubbliche, sottolineando che, proprio grazie alle nuove norme che ne rendono più sicuro il finanziamento da parte delle amministrazioni locali, le scuole associative potranno continuare ed eventualmente incrementare la loro attività.

Resta comunque aperta la questione “articolo 2 comma 1”. Di fronte a una norma costituzionale che mette in discussione un metodo didattico efficace e pone addirittura fuori legge caratteri diacritici “non francesi”, lo scorso 15 giugno, i due relatori della legge – il deputato Paul Molac e la senatrice Monique De Marco – insieme ad altri centotrentasette parlamentari di Francia e a tre eurodepuati hanno scritto al presidente Macron sollecitando un suo intervento per garantire la libertà dei genitori nella scelta del nome dei loro figli, senza essere ostacolati dai funzionari dei servizi anagrafici, per sostenere la pratica del modello immersivo da parte delle scuole associative e soprattutto, al fine di superare in maniera definitiva dall’incertezza giuridica derivante dall’articolo 2 comma 1 della Costituzione e dalla sua interpretazione, per avviare speditamente una riforma costituzionale che permetta alle istituzioni pubbliche di «difendere e promuovere le nostre lingue».

Se qualcuno se ne fosse dimenticato, tra le tante cause di discriminazione e di violazione di libertà e diritti in Europa – e in particolare in Francia – c’è anche quella che può essere definita “glottofobia”.

Riferimenti bibliografici minimi

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Stolfo M. (2003), La tutela delle lingue minoritarie tra pregiudizi teorici e buoni motivi, in Ianua. Revista Philologica Romanica, n. 4, www.romaniaminor.org/ianua

Stolfo M. (2005), Lingue minoritarie e unità europea. La “Carta di Strasburgo” del 1981, Milano, Franco Angeli, Milano.

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