Tra opposti nazionalismi. Appunti per lo studio del nazionalismo in Sardegna (II)

[Andria Pili]

La prima parte di questi appunti iniziava a ragionare sull’incontro e scontro tra nazionalismo sardo e nazionalismo italiano partendo dall’alleanza, attualmente al governo della Regione Sardegna, del più importante partito nazionale sardo (PSdAz) con il più forte partito nazionalista italiano dell’Italia contemporanea (Lega), sebbene oggi tale primato gli venga conteso da Fratelli d’Italia, in ogni caso sempre parte della maggioranza di centrodestra che sostiene il Presidente della Regione Christian Solinas, sardista. Inoltre, sono state esposte le diverse fasi dell’italianità nel margine sardo in contrapposizione con la sardità, individuando la nascita di una dicotomia modernità-arretratezza e la convivenza tra un nazionalismo civico italiano e un’identità etnico-territoriale sarda. L’ultima fase riguardava il trentennio fra la fine della Seconda Guerra Mondiale e la metà degli anni’70: in questo periodo l’italianizzazione era al massimo del suo consenso e il sardismo politico scese ai minimi termini elettorali. Ciò era dovuto alle speranze suscitate dai Piani di Rinascita, il progetto di sviluppo economico a guida statale, con il concorso della Regione.

In questa parte vedremo come al fallimento della Rinascita seguì un recupero dell’identità sarda, che la classe politica regionale cercò in qualche modo di recepire sempre al fine di conservare la propria funzione nel rapporto di mediazione con lo Stato centrale.

Per quanto il fenomeno sia diventato evidente principalmente a partire dal “Vento Sardista” degli anni’80, possiamo notare dei precursori molto interessanti, a mio parere, nel periodo della cosiddetta “politica contestativa” regionale”. Viene così definito l’atteggiamento conflittuale che le giunte regionali hanno assunto verso lo Stato centrale, poco dopo l’approvazione del primo piano di Rinascita – a partire dalla Giunta Dettori (1966-67) – al fine di richiamare il governo italiano a un maggiore impegno per lo sviluppo dell’isola e rivendicare, per la Regione Autonoma, il diritto di poter intervenire maggiormente nell’attuazione del Piano di Rinascita. Questo atteggiamento della “cultura della Rinascita” sopravviverà agli anni’70 per diventare pratica di governo (Soddu 1992, 2002), volta a rafforzare la posizione dei politici al potere della Regione tramite la rivendicazione di finanziamenti pubblici, sempre più slegati da obiettivi definiti di sviluppo economico. In questo contesto, l’archeologo Giovanni Lilliu iniziò a sistemare il concetto di costante resistenziale sarda (Lilliu 2002). Egli non era soltanto un accademico ma anche un dirigente regionale della Democrazia Cristiana, di cui fu anche consigliere regionale. In un suo discorso consiliare del 1970 (Accardo 1998, Lilliu 1970) fece sfoggio della sua teoria, in cui effettuò un rovesciamento del paradigma dominante sull’identità sarda nei decenni precedenti, pur rimanendo nello stesso stereotipo, trasformato in chiave positiva. In questo discorso sostenne che il punto di riferimento per la politica regionale avrebbe dovuto essere la protesta delle “zone interne”, la cui connotazione sarebbe innanzitutto etnica. Bisogna considerare che, nel 1964, era stato un sindaco sardista indipendentista di Ollolai, Michele Columbu, a far emergere il disagio sociale di quest’area tramite una marcia di protesta. In tal modo, una protesta con motivazioni sociali veniva praticamente ricondotta e inquadrata – “non una contestazione di classe, ma una contestazione etnica e di civiltà” – a un fenomeno di lunga durata da ascrivere alla conservatività dell’identità sarda (Lilliu 1967, 1970), con la Barbagia, da sempre resistente all’acculturazione e dominazione esterna, come sede del “autentico sardismo etnico e culturale” e “nocciolo nuovo della (…) vera questione sarda”. Pochi anni dopo, lo stesso Lilliu (1975) affermerà che la questione sarda avrebbe dovuto essere innanzitutto etnoculturale anziché economica, collocando la nascita del sardismo addirittura nello scontro fra la “autentica cultura protosarda” e “il primo evento di paleocolonialismo” cartaginese nel VI secolo a.C.

Gli anni Settanta furono gli anni dell’emersione nel dibattito pubblico dei temi posti dal neosardismo indipendentista; i tempi erano favorevoli alla trasmissione di questi contenuti, per ragioni interne ed esterne, parte di un fenomeno che coinvolse tutta l’Europa Occidentale. A partire dalla crisi petrolifera (1973-79) e della stagflazione, il ruolo interventista dello Stato keynesiano in ambito economico e sociale entra in crisi in tutta l’Europa Occidentale, creando una crisi di legittimità per lo Stato centrale e i suoi partiti di riferimento che, in quelle regioni caratterizzate da una frattura centro-periferia, sfocia in una riscoperta delle proprie questioni nazionali periferiche; il progetto europeista e la globalizzazione (Alesina, Spolaore 2003; Gomez-Reino 2018) hanno ridimensionato la sovranità degli Stati-Nazione e dato un nuovo ruolo alle regioni, per cui emergono nuove opportunità dalla loro compartecipazione a un’economia dalle dimensioni più ampie del proprio Stato di appartenenza, portando alla rivalutazione dei benefici della permanenza in esso; inoltre, ampliato il ruolo del mercato a scapito dello Stato, indirettamente, si è prodotta anche una domanda politica di controllo democratico dei nuovi processi economici, a partire dal livello più prossimo ai cittadini. In Sardegna, questa epoca contemporanea è stata caratterizzata dal fallimento dei “Piani di Rinascita” il cui effetto non è stato il superamento del divario di sviluppo economico ma la creazione di un’economia dipendente e disincentivata allo sviluppo endogeno; oltre all’emigrazione e alla marginalizzazione delle zone interne, spopolate in favore delle coste. Inoltre, terminato il massiccio interventismo pubblico, dagli anni’80, si è assistito a una ripresa del divario tra la Sardegna e il Nord Italia.

Tutto ciò creò una crisi di legittimità dello Stato e dell’autonomia regionale, dunque un ambiente favorevole alla diffusione di un nuovo sardismo, che si è schierato criticamente verso le politiche di sviluppo economico promosse dallo Stato e dalla classe politica regionale. Si generò un nuovo interesse per l’identità culturale della Sardegna. La contestazione politica era, infatti, unita alla denuncia dell’italianizzazione, che aveva escluso la lingua sarda da ogni ambito pubblico, portandola al rischio di scomparsa. Su questo tema si creò una grande mobilitazione dell’opinione pubblica, approdando, nel 1977, alla realizzazione di una proposta di legge di iniziativa popolare per il bilinguismo italiano-sardo. Tuttavia, malgrado l’ampio coinvolgimento di forze politiche e sociali, non si riuscì ad approvarla e dovranno trascorrere ben otto anni prima che ne venga proposta un’altra (Pillonca 2020). All’epoca, il sardo non era ufficialmente riconosciuto come una lingua e quindi non godeva della tutela costituzionalmente garantita alle minoranze linguistiche. Sarà così sino al 1999, mentre il bilinguismo perfetto rimane ancora irrealizzato.

La battaglia culturale per la lingua sarda rappresentò l’apice del movimentismo neosardista (Ortu 1985, Scroccu 2018), grazie all’attivismo politico di Su Populu Sardu e dei Circoli Città-Campagna oltre all’opera pubblicistica di riviste quali “Nazione Sarda” di Eliseo Spiga (CC), “Sa Sardigna” di Gianfranco Pintore (SPS) e “Sardegna Europa” di Giuseppe Usai, legata al Movimento Federalista Europeo. Tuttavia, al proprio successo nel portare nel dibattito pubblico sardo i temi identitari, non corrispose la creazione di un’organizzazione politica tanto radicata da raccogliere i frutti del proprio lavoro e competere con gli altri partiti, intercettando anche l’ampio disagio sociale e insoddisfazione politica sopra descritti. Dei tentativi di strumentalizzazione dei temi neosardisti erano stati già tentati da esponenti importanti della DC regionale: Pietro Soddu, presidente della Giunta Regionale, nel 1977 affermò di rappresentare una “nazione”; Nino Carrus, invece, scrisse di “federalismo”.

Così, negli anni’80, questa nuova sensibilità nazionale sarda fu canalizzata verso il PSdAz, che dal 1979 al 1984 passò dal 3.3% al 13.7% dei voti. Nel frattempo, il Partito Sardo, ravvivata la sua corrente indipendentista, aveva integrato parte di SPS – con la quale fece un apparentamento elettorale nel ’79 – e nel Congresso di Porto Torres del 1981 approvato il suo nuovo Statuto, in cui si dichiara come obiettivo quello di “condurre la Nazione Sarda all’indipendenza”. Già due anni prima, in un documento ufficiale, aveva affermato di voler trasformare il Consiglio Regionale in Costituente della Nazione Sarda (Sechi 1985). Dal 1984 al 1989 fu così possibile un governo regionale senza la Democrazia Cristiana, con perno in un’alleanza tra il PSdAz e il PCI, esprimendo come presidente il sardista Mario Melis. Questo si distinse in particolar modo per aver posto con forza la questione delle servitù militari, senza però riuscire a ottenere risultati tangibili sui punti principali della sua agenda: l’instaurazione della zona franca, la rinegoziazione dei poteri regionali,  il bilinguismo. Inoltre, il Partito non seppe apparire come realmente diverso dai partiti di sistema e come realmente discontinuo rispetto alla propria storia autonomistica di gestione di spazi di potere regionale e locale; così finì l’esperienza all’esecutivo e dalle elezioni regionali successive il consenso elettorale verso il Partito iniziò a calare.

Tra il 1994 e il 1999 si formò una maggioranza regionale di centrosinistra, con al suo interno il Partito Sardo d’Azione, esprimente come Presidente della Regione Federico Palomba. In questo periodo furono approvati degli atti molto significativi. Innanzitutto, la legge regionale 26/1997 di “promozione e valorizzazione della cultura e della lingua della Sardegna”, nella quale si afferma “l’ identità culturale del popolo sardo come bene primario da valorizzare e promuovere”, individuando “nella sua evoluzione e nella sua crescita il presupposto fondamentale di ogni intervento volto ad attivare il progresso personale e sociale, i processi di sviluppo economico e di integrazione interna, l’ edificazione di un’ Europa fondata sulla diversità nelle culture regionali”. Questa formula fu molto criticata dall’antropologo Giulio Angioni (2000), il quale notava come l’identità culturale sarda vi apparisse come qualcosa di positivo in assoluto, acriticamente, con il rischio di “dare credito e spazio al folklorismo turistico-nostalgico”. Un aspetto certamente positivo di quella legge, tuttavia, fu la presenza di forme di tutela per la lingua sarda “riconoscendole pari dignità rispetto alla lingua italiana”; a ciò non è mai seguita una seria volontà politica sulla questione linguistica malgrado poco dopo, con la legge 482/1999, lo Stato italiano riconobbe ufficialmente i sardi come minoranza linguistica storica. Il 25 settembre 1999 il Consiglio Regionale ha approvato a larga maggioranza (44 voti favorevoli, 13 astenuti, 2 contrari) una mozione sardista che dichiara solennemente la “sovranità del popolo sardo” sul proprio territorio e sul proprio mare territoriale. Questa rivendicazione era motivata non solo dalla constatazione della necessità di nuovo assetto istituzionale in favore del “libero sviluppo economico, sociale, culturale” dell’isola e dell’inconcludenza del Parlamento riguardo la realizzazione di uno Stato federale, ma anche da una ricostruzione storica secondo cui si tratterebbe di recuperare la sovranità di cui “il Popolo Sardo ha goduto in passato (…) con la creazione delle quattro statualità dei giudicati”; non solo, nei sardi “tale senso della sovranità e della statualità era profondamente radicato” e “ciò portò al fallimento dei tentativi di infeudazione imperiale (…)  i sardi combatterono accanitamente contro l’imposizione di una dominazione esterna”. Inoltre, rivendica la propria soggettività politica in nome della “propria precisa identità derivante da fattori storici, geografici, culturali e linguistici”. Durante il dibattito consiliare emersero diversi particolari interessanti, che mostrano tutte le contraddizioni di un atto simile, al netto della retorica altisonante: a dichiarare il voto contrario furono un consigliere di Sinistra (Giancarlo Ghirra) e uno del gruppo misto, eletto con il Patto Segni (Aniello Macciotta); fu lasciata libertà di voto al gruppo di Alleanza Nazionale, cioè ai più nazionalisti italiani presenti nell’assemblea, mentre il gruppo di Forza Italia dichiarò il suo voto favorevole; l’esponente sardista Efisio Serrenti affermò che “la sovranità è un modo per diventare cittadini italiani adulti” e che si tratta di “chiedere ed ottenere i poteri necessari per poter essere sovrani nella nostra terra”.

Un caso di studio molto interessante, in questo periodo tra anni’90 e primi 2000, è offerto dall’istituzione, con la legge regionale 44/1993, della festa nazionale dei sardi, “Sa Die de sa Sardigna”, il 28 aprile, nel giorno dell’anniversario della cacciata dei piemontesi dall’isola nel 1794. Si tratta della vicenda storica più nota della Sarda Rivoluzione di fine Settecento. Su di essa ci sono due interpretazioni agli estremi: la prima, dominante nella storiografia sarda degli anni’60 del Novecento, ritiene che il triennio rivoluzionario (1794-96) sia stato precursore del Risorgimento, tesi condivisa anche in tempi recenti anche dal recentemente scomparso Manlio Brigaglia (2014); per i nazionalisti sardi più radicali, invece, l’evento è parte di una guerra di indipendenza nazionale. Antonello Mattone e Piero Sanna (2007), con una lettura più cauta e distante da entrambe, ritengono che la Sarda Rivoluzione sarebbe l’ultimo moto patriottico dell’Europa del XVIII secolo, essendo ancora legato a pratiche di Antico Regime. Maria Lepori (2003) ha sottolineato l’ambiguità della convergenza “nazionale” di interessi tra l’élite aristocratica tradizionale e una nuova élite sociale, accomunate dalla volontà di utilizzare la specificità del Regno sardo contro l’assolutismo regio, per poi entrare in conflitto quando irruppero sulla scena le comunità rurali e l’ala più democratica del movimento riformatore cercò dunque di unire alla rivendicazione originaria la lotta al dispotismo feudale.

L’antropologo Benedetto Caltagirone (2005) ha analizzato questa celebrazione ufficiale, ritenendola utile per indagare i meccanismi di costruzione dell’identità: “…mentre nel resto d’Europa la nascita e lo sviluppo di moderne identità nazionali si accompagna a una progettualità politica di stampo nuovo in relazione a nuove forme di statualità e di società e a nuovi principi e ideali di convivenza sociale, in Sardegna (…) nasceva paradossalmente come segno della conservazione”. Lo studioso rimprovera a questa festa di celebrare gli elementi etnici più di quelli patriottici: i piemontesi sono gli stranieri contro cui il popolo sardo si sarebbe unito in quell’evento unico; dello stesso periodo rivoluzionario settecentesco sono invece trascurati eventi che la Sinistra democratica e sardista aveva considerato più importanti per un “movimento autonomistico più radicale e popolare”, come i moti antifeudali del 1795-96, nei quali Emilio Lussu aveva ravvisato le origini ideali del sardismo. Anche lo storico Gian Giacomo Ortu (2003) ha criticato la celebrazione del 28 aprile in quanto vorrebbe costringere i sardi “a contemplare il passato nello specchio deformante di un residuo d’astio anti-piemontese, e in parte anti-italiano”. Nel libro di Caltagirone si riporta che Giovanni Lilliu, presidente del Consiglio per sa Die del 2002, in un messaggio ai quotidiani sardi aveva descritto l’identità sarda come separatezza e resistenza contingente all’alterità. Con il tempo la rievocazione storica dei moti rivoluzionari è stata sempre più flebile e la festa si è trasformata in una celebrazione della “identità sarda”, dedita a rappresentazioni di questa identità, molto varie: tra le altre, la Brigata Sassari, Antonio Gramsci, Giorgio Asproni, i prodotti agroalimentari.

Giungendo ai tempi più vicini a noi, un caso interessante è rappresentato dal movimento sorto intorno a Renato Soru, imprenditore innovatore a capo della Tiscali ed emerso come leader del centrosinistra sardo tra il 2004 e il 2008, durante i quali fu Presidente della Regione. Il suo partito (Hepburn 2008) era Progetto Sardegna, anima della coalizione Sardegna Insieme; esso si poneva contro la vecchia classe politica, con l’obiettivo di valorizzare la nazione sarda attraverso il rafforzamento di identità-lingua-cultura come mezzi di costruzione di autocoscienza. Durante la sua giunta fu elaborato uno standard di unificazione della scrittura in lingua sarda, la Limba Sarda Comuna. Inoltre, fu fautore di una legge regionale per la preservazione delle coste e di un Piano Paesaggistico con un’attenzione sul binomio ambiente-identità, con l’introduzione della categoria di “beni identitari”, ovvero quelli che “che consentono il riconoscimento del senso di appartenenza delle comunità locali alla specificità della cultura sarda”. Oltre a ciò, ritenne l’identità sarda anche come “valore economico” contro l’omologazione, utile per incrementare il potenziale del turismo, le esportazioni, la protezione dell’ambiente. Durante la sua legislatura fu varato un progetto di nuovo statuto, la legge regionale 7/2006, contenente l’espressione “sovranità del popolo sardo”, che fu cassata dal governo Prodi. Secondo Bachisio Bandinu e Salvatore Cubeddu (2007), il modello del sorismo è la politica contestativa: parla di “governo nemico” e chiama “tutti i sardi” a ribellarsi; chiama l’unità autonomistica sulla questione fiscale; elabora un dossier caso Sardegna, riguardante le servitù militari, la vertenza entrate, la crisi industriale.

Con la crisi economica del 2008, analogamente alla crescita di movimenti di Sinistra e populisti in tutta Europa, si registra una fase ascendente dell’indipendentismo in un contesto segnato dall’insorgere di numerosi movimenti: da categorie lavorative al settore pastorale, piccoli imprenditori, studenti; nascono numerosi comitati locali in difesa dell’ambiente contro la speculazione energetica e contro l’instaurazione di una centrale nucleare nell’isola. Inoltre, i partiti di riferimento statale attraversano una crisi di legittimità causata dalla loro adesione alle politiche neoliberali nei due decenni precedenti e alla politica di austerità; in più, in Sardegna, diversi consiglieri regionali vengono coinvolti in un’inchiesta per peculato. In questo contesto, Sardigna Natzione fu capace di creare una grande mobilitazione contro il nucleare nell’isola, portando nel 2011 a un referendum in cui l’ostilità alle centrali fu espressa con il 97% dei voti. Inoltre, i movimenti indipendentisti (SN, indipendentzia Repubrica de Sardigna, a Manca pro s’Indipendentzia) erano riusciti a inserirsi nell’alveo delle proteste sociali, esercitando un’influenza tale da riuscire a creare una cosiddetta Consulta Rivoluzionaria (poi rapidamente fallita) riunendo varie categorie sociali in protesta in nome di parole d’ordine di “sovranità” alimentare, energetica, fiscale.

Il successore di Soru, Ugo Cappellacci (2009-2014), di centrodestra, nel suo discorso inaugurale affermò come l’identità sarda fosse a rischio a causa dell’omologante globalizzazione; perciò, sarebbe necessario riacquisire i caratteri dell’identità sarda, in quanto diversità e unicità sarebbero un valore aggiunto, una ricchezza su cui costruire la ripresa economica. Durante la sua legislatura, nel 2012, una mozione sardista in favore di un referendum per l’indipendenza fu bocciata per un solo voto. Francesco Pigliaru, nel 2014, fu eletto Presidente della Regione come candidato del centrosinistra italiano alleato con una parte dell’indipendentismo sardo (iRS e Partito dei Sardi), in nome del “sovranismo”, di cui recepisce la proposta della creazione di un’Agenzia Sarda delle Entrate; durante la legislatura fu anche approvata una legge per disciplinare la politica linguistica regionale (legge regionale 22/2018).

Dal 2019 al governo della Sardegna c’è di nuovo un Presidente della Regione sardista, Christian Solinas. Tuttavia, a differenza del “Vento Sardista” degli anni’80, l’ascesa elettorale del PSdAz non è stata conseguente a un diffuso movimento sociale recepito da questo partito, bensì a una fase di riflusso del diffuso movimentismo che aveva caratterizzato la Sardegna nella fase tra il 2008 e il 2014. L’attuale esecutivo regionale è frutto di una maggioranza di centrodestra egemonizzata dal PSdAz e dalla Lega. I due partiti si sono alleati dall’anno precedente per permettere la candidatura dello stesso Solinas al Senato italiano, eletto nelle file del partito di Matteo Salvini. Ufficialmente, tale accordo è giustificato da una comune sensibilità verso i temi del federalismo. Tuttavia, si tratta di una spiegazione chiaramente insufficiente. Per dare una logica all’apparentemente contraddittoria alleanza fra il più forte partito nazionale sardo e il più importante partito nazionalista italiano contemporaneo, credo si debba andare oltre la storica “incoerenza ideologica” che, come nota la politologa Eve Hepburn (2009), è una costante della storia del PSdAz, dagli anni’90 oscillante fra centrodestra, centrosinistra e nazionalismo sardo, così come in precedenza fra la DC, il PCI e l’indipendentismo.

A mio parere, il PSdAz oggi – malgrado la presenza al suo interno di una minoritaria corrente indipendentista liberista – è guidato dagli interessi di un pezzo di ceto politico. In Consiglio Regionale il PSdAz è rappresentato quasi totalmente da transfughi di vari partiti, con i quali avevano ricoperto incarichi di rappresentanza a livello regionale o locale. Si tratta solo della punta di un iceberg di una pratica trasformista consolidata per selezionare i propri candidati. Lo stesso Presidente della Regione e segretario del PSdAz Solinas ha iniziato la sua ascesa politica da delfino di Mario Floris, già presidente della regione per la DC e consigliere regionale per tante legislature, fondatore di un piccolo partito sardo legato al centrodestra (Unione Dei Sardi); il vicesegretario del PSdAz, Quirico Sanna, attuale assessore regionale all’urbanistica, era stato invece un dirigente provinciale di Alleanza Nazionale, partito nazionalista italiano di Destra. Si tratta di una parte di un fenomeno più ampio, avvenuto negli ultimi vent’anni; a spiegarlo uno dei principali studiosi del sardismo, il politologo Carlo Pala (2016):«i partiti italiani in Sardegna hanno preso spunto da quelli etnoregionalisti (…) i partiti di ispirazione centrale (…) da circa un decennio hanno sposato battaglie nate in un alveo indipendentista o autonomista (…) l’aspetto più importante e non abbastanza evidenziato è l’impossessamento da parte di questi partiti di tematiche sarde ritenute nuovamente in grado di influenzare i cittadini e quindi i possibili elettori. Questo rende più credibile e più probabile il dialogo tra alcune forze indipendentiste e i partiti nazionali italiani (…) i partiti hanno dunque immesso nei propri circuiti rappresentativi a tutti i livelli di governo (…) temi e modalità di azione propri di forze ritenute sino a qualche tempo prima antisistema».

Conclusioni

La mia idea è che, dalla fine degli anni’70, in Sardegna, vi sia stato una sorta di doppio movimento, probabilmente collegato anche a delle fasi socioeconomiche: da un lato una domanda crescente, da parte della società, di attenzione per delle politiche legate al territorio e di conoscenza del proprio patrimonio culturale e l’indipendentismo organizzato che, pur in crescita, solo in parte ha saputo politicizzare la frattura centro-periferia, senza raccogliere pienamente i frutti della propria azione a livello elettorale; la classe politica sarda, subalterna ai partiti di riferimento statale o parte di essa, si è impossessata di un registro sardista e ha recepito parte delle istanze indipendentiste, per neutralizzarne il carattere emancipativo, focalizzandosi principalmente su temi etnoculturali, utilizzati come mero segno del proprio legame sentimentale. Ciò che si vuole non è una rottura con lo Stato ma soltanto una ridefinizione del proprio ruolo di mediazione, utilizzando un registro e una retorica rivendicativa cercando di intercettare una diffusa sensibilità per certi temi simbolici, connessi al sardismo, e un risentimento verso uno Stato centrale sentito da molti come ingrato e distante.

In questo quadro, parole come “sovranità” e “indipendenza” nelle loro bocche perdono il loro reale significato per diventare elementi puramente simbolici da sventolare entro una rivendicazione contro un governo centrale impopolare. Il tema dell’identità è stato infine strumentalizzato per ragioni reazionarie: un esempio di questo è il movimento per l’Insularità in Costituzione, che riunisce trasversalmente tutta la classe politica sarda, unendo, in modo contraddittorio, gli storici stereotipi negativi sul sottosviluppo della Sardegna per cause geografiche a un’idea positiva di identità sarda, legata all’insularità da cui discenderebbe una “specialità” da salvaguardare, di cui lo Stato centrale dovrebbe tenere conto per varare le politiche necessarie per mettere l’isola alla pari con il resto dei cittadini italiani. Non sorprende che l’iniziativa sia strettamente legata con quella di “Sardegna verso l’Unesco” che vorrebbe chiedere il riconoscimento di bene patrimonio dell’umanità per il paesaggio sardo, a causa della diffusa presenza di monumenti della civiltà nuragica.

L’identità, sempre nello stesso periodo qui analizzato, in tutto il mondo (D’Eramo 2017), ha assunto un valore economico legato all’industria turistica, in linea con processi di de-industrializzazione e particolarmente pervasiva in regioni sottosviluppate come la Sardegna. Se un discorso identitario è funzionale alla classe politica sarda per legittimare sé stessa, una volta esaurita l’ideologia della Rinascita, la politica turistica, per la stessa, è una delle poche leve importanti da utilizzare entro l’attuale condizione dell’isola nell’economia europea e italiana – l’economista Gianfranco Viesti (2021), per parlare del Meridione d’Italia ha usato l’espressione di “trappola dello sviluppo intermedio”- che non si ha interesse a mutare, ad esempio investendo in capitale umano e per una politica scolastica e universitaria slegata dalle politiche neoliberali trasversalmente condivise dai governi centrali, visto che garantisce la loro funzione di intermediazione.

Pur essendo stato presente in tutte le lotte più importanti, svolte nell’isola durante l’ultimo ventennio, l’indipendentismo sardo organizzato non è riuscito a collegare queste entro un coerente progetto globale di cambiamento della società sarda, continuando a essere percepito dalla società come mero identitarismo, distante dai problemi quotidiani delle persone. Da un lato ciò si deve allo sguardo denigratorio che i media gli rivolgono, dall’altro dipende dal fatto che i temi riguardanti l’identità culturale (dalla lingua sarda alla toponomastica nazionale sarda) sono gli unici che i vari movimenti hanno saputo veicolare chiaramente e per i quali, dunque, vengono identificati fino al punto che alcuni loro esponenti si definiscono esplicitamente come “identitari” per distinguersi dagli altri, specie se alleati in una stessa lista o coalizione elettorale. Inoltre, sebbene la storia sarda degli ultimi due secoli insegni come una doppia identità (sarda e italiana) possa convivere e vi sia un’ampia consapevolezza di appartenere a un contesto diverso, una parte non trascurabile di indipendentisti ritiene che il punto principale sia quello di convincere i sardi di non essere italiani, nell’idea che da una maggiore consapevolezza identitaria debba necessariamente discendere una scelta politica indipendentista. La maggiore attenzione rivolta al conflitto esterno, contro lo Stato, piuttosto che al conflitto sociale entro la società sarda, ha ugualmente contribuito a questa caratterizzazione “identitaria”, che impedisce loro di essere percepiti come portatori di un progetto politico realmente alternativo a quello che lo Stato italiano rappresenta e offre l’occasione di vedere strumentalizzate le proprie parole d’ordine. A mio parere, una parte di responsabilità in questo è dei partiti nazionalisti sardi che, fin dalla nascita dell’autonomia, hanno svolto un ruolo funzionale al partito di potere di turno (dalla DC al Partito Democratico o al centrodestra egemonizzato da Forza Italia o dalla Lega) o addirittura, più recentemente, anche co-optato al proprio interno dei membri della vecchia classe politica (pratica del PSdAz attuale come del Partito dei Sardi nella legislatura precedente).

Identitarismo sardo e nazionalismo italiano, in questo senso, non sono necessariamente in contraddizione ma, anzi, si rafforzano reciprocamente a servizio degli interessi della classe politica sarda.

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