Sinn Féin: la vittoria che spezza il duopolio conservatore in Irlanda

 

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[Marco Santopadre]

Il voto di sabato, sebbene alla fine lo Sinn Féin sia in seconda posizione per numero di seggi nonostante la vittoria in termini percentuali, ha un valore storico e scatena un vero e proprio terremoto politico in un paese che per quasi un secolo è stato governato da un sistema bipartico ma monoideologico, incentrato sull’alternanza tra i “liberali” del Fianna Fáil e i “democristiani” del Fine Gael. Sono entrambi partiti di tradizione nazionalista e conservatrice e addirittura il secondo è erede del movimento fascista delle Blue Shirts (sbaragliato grazie alla mobilitazione del movimento operaio e dei repubblicani antifascisti che poi andarono a combattere Franco in Spagna con le Brigate Internazionali…), ma tutto ciò non ha impedito a certi quotidiani democratici italiani di rappresentarli come una diga contro la barbarie nazionalista e plebea.

Il partito che, dopo la smilitarizzazione e lo scioglimento dell’Esercito Repubblicano Irlandese (anche se alcune sue branche continuano a combattere non riconoscendo gli Accordi del Venerdì Santo), fu sdoganato nelle 26 contee da Gerry Adams e da pochi anni guidato da Mary Lou McDonald, si è piazzato in testa con uno storico 24,5%, ben 10,7 punti in più rispetto al 2016. Un exploit che ha ridimensionato i due partiti sistemici relegando il Fianna Fáil al 22,2% (-2,2) e il Fine Gael al 20,9% (-4,7). Ma i repubblicani non hanno tolto voti solo al centrodestra: i laburisti sono scesi al 4,4% (-2,2), la lista di sinistra radicale “Solidarity-People Before Profit” ha preso il 2,6% perdendo 1,3 punti, i candidati indipendenti hanno ricevuto complessivamente il 12,2% perdendo il 3,5, altri partiti minori hanno ottenuto l’1,3% perdendo il 3. I socialdemocratici hanno invece tenuto attestandosi al 2,9% (-0,1), e va sottolineato il buon risultato dei verdi cresciuti fino al 7,1% (+4,4) mentre ottengono una piccola rappresentanza con l’1,9% anche i centristi di “Aountù”, nati recentemente da una scissione antiabortista e conservatrice dello Sinn Féin.

Alla fine del lungo e complesso conteggio (dovuto ad un sistema elettorale proporzionale ma a voto singolo trasferibile, che permette agli elettori di scegliere più candidati della stessa lista o di liste diverse in ordine decrescente di preferenza), la vittoria dello Sinn Féin non si è manifestata in pieno a causa di un errore di valutazione dei repubblicani, che basandosi sui magri risultati ottenuti alla ultime elezioni europee e amministrative, per non disperdere voti avevano presentato solo 42 candidati nelle 39 circoscrizioni elettorali in cui è suddivisa l’EIRE. La conseguenza è che una parte dei voti conquistati dal SF piazzandosi in testa anche in territori tradizionalmente ostili (in alcune circoscrizioni del nord o di Dublino i repubblicani hanno superato il 40%) sono andati persi al momento di assegnare i seggi avvantaggiando soprattutto i due partiti di centrodestra ma anche le altre liste. Alla fine il Fianna Fáil ha ottenuto 38 Teachta Dála (-6), lo Sinn Féin 37 (+14), il Fine Gael 35 (-15), i verdi 12 (+10), i laburisti 6 (-1) come i socialdemocratici (+3), Solidarity 5 (-1), Aountù 1 e al Dàil siederanno ben 20 indipendenti.

Ora non solo nessuno dei due partiti sistemici potrà governare da solo come accaduto per molti decenni, ma per la prima volta nella storia neanche un’alleanza tra FG e FF potrà assicurare un governo al paese, visto che sommando i seggi ottenuti dalle due formazioni di centrodestra si arriva appena a 73, sette in meno rispetto alla maggioranza assoluta. I due ex pilastri del sistema politico irlandese dovrebbero cercare ulteriori alleati tra le forze minori e le trattative, ammesso che si scelga questa strada e non si offra l’ingresso nel governo allo SF violando uno storico tabù, potrebbero essere lunghe, complesse e forse anche inconcludenti.

 

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L’affermazione dello Sinn Féin non ha scioccato soltanto i benpensanti di Dublino. La possibilità che i repubblicani di sinistra potessero vincere le elezioni dell’8 febbraio ha scatenato la fantasia di alcuni cronisti che della situazione irlandese hanno fornito un quadro spesso grottesco e caricaturale, mossa abituale quando la stampa mainstream è costretta a confrontarsi con fenomeni politici che poco conosce e a maggior ragione con i movimenti etnoterritoriali e le formazioni che si battono per l’autodeterminazione. Dimostrandosi una formazione dinamica e versatile, lo Sinn Féin ha corretto il tiro dopo i deludenti risultati delle elezioni europee e amministrative ed ha condotto una campagna elettorale aggressiva prendendo di petto i problemi quotidiani di una popolazione che ha beneficiato poco o nulla della presunta crescita economica vantata dall’ex Taiseoach (primo ministro in gaelico) Leo Varadkar, e che continua invece a soffrire delle conseguenze di una crisi finanziaria ed economica curata, in Irlanda come negli altri PIGS e non solo, con una draconiana iniezione di austerità che ha aumentato insicurezza e diseguaglianze.

Lo Sinn Féin può essere definito un partito “nazionalista” e al tempo stesso “populista di sinistra” (etichette che generalmente la stampa utilizza in senso dispregiativo e che andrebbero invece usate senza pregiudizi ed esclusivamente in chiave descrittiva) che ha saputo intercettare non solo la grande domanda sociale di welfare e diritti, ma anche il malcontento dei giovani per un sistema economico che dispensa precarietà; non è un caso che il maggior numero di consensi i repubblicani li abbiano ottenuti nelle fasce d’età più basse. Lo Sinn Féin ha anche capitalizzato una più generalizzata critica nei confronti di un sistema politico che non solo ha risposto con i tagli e le privatizzazioni alla crisi del 2008, facendone ricadere i costi sulle fasce più deboli della popolazione, ma che era ormai da troppo tempo bloccato su un modello di alternanza tra due partiti di centrodestra che si differenziano quasi soltanto per il ruolo svolto nella guerra civile seguita alla creazione dello Stato Libero nel 1921. Tra le formazioni punite dagli elettori (era accaduto ancora più vistosamente nel 2016) oltre a quelle di centrodestra c’è anche il Partito Laburista che alcuni anni fa sacrificò le sue promesse riformiste e la difesa dei ceti più deboli proponendosi come stampella nel governo guidato dai liberisti del Fine Gael che, applicando alla lettera senza alcuna resistenza i diktat dell’Unione Europea, fece rivivere a milioni di irlandesi livelli di disoccupazione e povertà che si speravano spazzati via per sempre da quella che sembrava l’irrefrenabile ascesa della Tigre Celtica. Ma molti irlandesi hanno imparato già alla fine dello scorso decennio che i profitti delle grandi imprese e la crescita del Pil non necessariamente si trasformano in un miglioramento delle condizioni di vita, dei salari e dei servizi per la popolazione.

Diventato premier a soli 38 anni nel 2017, apertamente omosessuale e figlio di emigrati indiani, l’enfant prodige Leo Varadkar ha pensato che i dati macroeconomici positivi portati a casa dal suo governo – composto dal suo Fine Fael e sostenuto dall’esterno dal Fianna Fáil – sarebbero bastati a convincere gli irlandesi a riconfermargli la fiducia e così ha sfidato la sorte convocando elezioni anticipate: nell’ultimo anno il PIL è cresciuto del 5,6% (il miglior risultato dell’Eurozona, gonfiato però dall’enorme quota rappresentata dai profitti delle multinazionali che in larga parte prendono la via di New York o di Londra), la disoccupazione è apparentemente tenuta sotto controllo e il ruolo della Chiesa Cattolica nella vita civile è stato ridimensionato. Argomenti poco validi per quella parte della popolazione che continua a soffrire le conseguenze dell’austerity imposta sotto dettatura delle istituzioni europee e del FMI nel 2011 che ha portato ad un taglio di ben 30 miliardi di euro di spesa pubblica, alla decurtazione media dei salari del 15-20% e alla privatizzazione di buona parte del patrimonio statale.

Mentre le multinazionali straniere, soprattutto statunitensi e britanniche, fanno affari d’oro grazie ad una tassazione tra le più basse al mondo, pari al 12.5%, che attira gli investimenti stranieri ma che redistribuisce ben poca ricchezza nel paese, la maggioranza della popolazione deve fare quotidianamente i conti con il caro affitti (raddoppiati in dieci anni) che allunga la liste dei senzatetto stipati in alloggi di fortuna, con la difficoltà di accedere ai mutui per comprare case il cui prezzo continua a lievitare, con il degrado del sistema sanitario pubblico (ospedali sovraffollati e liste d’attesa infinite) e con l’espansione della precarietà anche tra le fasce d’età non più giovanissime, e l’età pensionabile negli ultimi anni è stata progressivamente innalzata.

Se Varadkar ha incentrato la sua campagna elettorale sui progressi ottenuti nella lunga trattativa con Londra sulla Brexit, i candidati dello Sinn Féin hanno affrontato all’insegna dello slogan “it’s time for a change” quelle vissute come priorità dalle classi medie e basse (per un sondaggio dell’Irish Times l’assistenza sanitaria era in cima alle preoccupazioni degli elettori, seguita dall’emergenza abitativa, dalla precarietà e dalla questione ambientale) chiedendo uno stop alle agevolazioni fiscali per le multinazionali, un freno alla speculazione edilizia e il raddoppio della spesa sociale da 11 a 22 miliardi di euro per poter risollevare la sanità e l’istruzione pubblica.

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Il successo dello Sinn Féin è dovuto soprattutto alla capacità di fornire una sponda e una rappresentanza politica a una spinta sociale anti-establishment che cova da tempo. Contro il nazionalismo ingessato e museale del Fine Gael e del Fianna Fáil – tutto rivolto al passato e assai poco credibile tanta è la dipendenza economica e politica di Dublino rispetto a Londra nonostante la formale indipendenza – lo Sinn Féin ha messo in campo un’offerta politica convincente, capace di coniugare un programma di riforma sociali e di estensione dei diritti civili (in un paese che solo da pochi o pochissimi anni ha legalizzato divorzio, aborto e matrimoni tra persone dello stesso sesso) con la tradizionale rivendicazione di unificazione con le Sei Contee occupate dalla Gran Bretagna che ha tratto nuovo vigore e senso dopo la fuoriuscita di Londra dall’UE che rischia di ripristinare l’odiato confine tra Dublino e Belfast. D’altronde l’ascesa nel Nord dei partiti repubblicani, che alle ultime elezioni parlamentari britanniche hanno superato insieme quelli unionisti, rende la prospettiva della riunificazione non più così peregrina e remota e non a caso Mary Lou McDonald chiede a gran voce la celebrazione di un referendum con questo obiettivo nel 2025 (possibilità prevista dagli accordi del 1998) proprio mentre le spinte indipendentiste si accentuano anche in Scozia.

Il partito ha attenuato in questa occasione il suo tradizionale euroscetticismo, in parte per motivi ideologici e in parte perché la Brexit ha ravvivato una contrapposizione – lo stesso avviene nel caso dello Scottish National Party – in cui lo schieramento di Londra a favore del “leave” schiaccia anche per convenienza e opportunità politica i suoi oppositori sul piano nazionale verso uno schieramento pro-UE. L’elemento forse più interessante, per concludere, è che così come è accaduto negli ultimi anni in Catalogna ed in Scozia, lo Sinn Féin ha notevolmente accresciuto la sua base di consenso assai oltre il tradizionale limite dell’elettorato “nazionalista di sinistra” proponendo un progetto nazionale basato non tanto su un’identità posticcia e sempre uguale a se stessa, sui simboli e sulla retorica nazionalista e nostalgica – tipica invece del nazionalismo formale dei partiti sistemici – ma su una visione dinamica e inclusiva di una battaglia per l’unificazione e l’indipendenza che parli a tutta la società, associata a un programma di riforme sociali e di svecchiamento del sistema politico. E così facendo ha scardinato – occorrerà capire nei prossimi mesi se in maniera definitiva – il duopolio basato sull’artificiosa e ormai poco credibile competizione tra due partiti indistinguibili sul fronte programmatico e ideologico, entrambi liberisti, conservatori ed europeisti.

La crisi del modello bipartitico inaugurato poco dopo l’indipendenza era già iniziata proprio a causa delle trasformazioni sociali e ideologiche introdotte dalla crisi e dal ricorso all’austerità: se nel 2007 i due grandi partiti irlandesi insieme si accaparravano il 69% dei voti, nel 2011 la quota scendeva al 53,5, per calare ulteriormente poco sotto la soglia del 50% nel 2016. Ed ora insieme FG e FF superano appena il 43% in un parlamento in cui oltre allo Sinn Féin sono presenti anche altre formazioni di sinistra e progressiste. Un vero miracolo.

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